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Cosa intendiamo quando parliamo d'arte | What do we mean when we talk about art


In attesa della prossima edizione di Cristallino vi proponiamo

alcune riflessioni maturate in questi anni rispetto al lavoro degli artisti

e al significato profondo dell'opera d'arte, nel contemporaneo.

Un piccolo spunto da un saggio a firma di Roberta Bertozzi,

dal titolo "Un corpo estraneo", comparso in un catalogo

realizzato dalla Galleria Gasparelli Arte Contemporanea di Fano nel 2018.



“Il perfetto”, scriveva Nietzsche, “deve non essere divenuto”. Con successiva postilla commentava Theodor W. Adorno nei suoi Minima Moralia: “deve apparire cioè come se non fosse stato fatto”. Se prestiamo fede a queste tesi, l’aura di un’opera d’arte, il suo perfectum, dipenderebbe dal suo istituirsi come un qualcosa di completamente irrelato dal tempo – scisso da un pre e da un post, da ogni condizione del “fare”, dunque da tutto quell’insieme processuale della concezione, della fabbricazione, dell’esibizione e dell’attribuzione di un valore cui di solito è soggetta qualsiasi manifattura, non solo quella artistica.

La perfezione di un’opera consisterebbe nel suo consegnarsi, fin dal principio, all’oblio di ogni contingenza. Assestandosi solo come un fenomeno di natura, entità chiusa entro il suo perimetro, in tale perimetro completa e autosufficiente. Una pura e semplice oggettivazione, scevra di tutti quegli ipotetici impulsi che avrebbero concorso alla sua realizzazione. Un datum, nulla più.


L’opera d’arte agisce alla stessa stregua di un corpo estraneo, di uno strappo nella consuetudine del nostro vedere, di una cesura nella continuità del percepibile. In essa coabitano due forze, due vettori speculari: il primo di altitudine, di sradicamento, quasi conformandosi a una specie di ultimatum; il secondo di gravità, di ritorno a una qualche, perduta e mai più riscattabile, origine.


Ciò che è in gioco è esclusivamente l’individuazione di quel punto di vista che può rendere questa contrapposizione di forze ancora più oggettiva, più radicale: quel punctum da cui è possibile esasperare la solitudine dell’opera, l’opera nella sua solitudine, sorta di monade che proprio in quanto non ha più nulla a che fare con noi, né con chi ne ha favorito l’emersione né con chi si trova al suo cospetto, ci interroga dal lato della sua presenza, del suo scandalo. Forse il compito del gallerista non consiste in altro che di mostrare, di rendere visibile questo attrito e le sue virtualità. Di accordare spazio a ciò che aspira farsi atto. Anche e soprattutto quando questa volontà si condensa e si singolarizza indipendentemente da noi.





Mattia Vernocchi / ph Stefano Aspiranti


"The perfect", wrote Nietzsche, "must not have become". With a subsequent annotation Theodor W. Adorno commented in his Minima Moralia: “that is, it must appear as if it had not been done”. If we believe these theses, the aura of a work of art, its perfectum, would depend on its establishing itself as something completely unrelated to time - split from a pre and a post, from every condition of "making ”, Therefore, from the whole procedural ensemble of the conception, manufacture, exhibition and attribution of a value to which any manufacture is usually subject, not just the artistic one.

The perfection of a work would consist in its surrender, from the beginning, to the oblivion of any contingency. Settling only as a phenomenon of nature, an entity closed within its perimeter, in that complete and self-sufficient perimeter. A pure and simple objectification, devoid of all those hypothetical impulses that would have contributed to its realization. A datum, nothing more.


The work of art acts in the same way as a foreign body, a tear in the habit of our seeing, a break in the continuity of the perceptible. Two forces coexist in it, two mirror vectors: the first of altitude, of uprooting, almost conforming to a kind of ultimatum; the second of gravity, of returning to some, lost and never redeemable, origin.


What is at stake is exclusively the identification of that point of view that can make this opposition of forces even more objective, more radical: that punctum from which it is possible to exasperate the solitude of the work, the work in its solitude, of a monad that precisely inasmuch as it no longer has anything to do with us, neither with those who favored its emergence nor with those in its presence, questions us on the side of its presence, of its scandal. Perhaps the gallerist's task consists in nothing other than showing, making visible this friction and its virtualities. To give space to what aspires to be acknowledged. Also and above all when this will condenses and becomes singularized independently of us.




Erich Turroni / ph Stefano Aspiranti





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